Sandra

 

Mi mancava lavorare al golfino che avevo iniziato, ma soprattutto mi mancavano quei nonni adottivi che erano entrati e usciti dalla mia vita come un soffio di vento. Non mi sembrava normale. Era assolutamente inconcepibile che fossero più volubili di me, che mi ero sempre considerata la regina dei cambiamenti di opinione e delle idee confuse. Pensavo che alla loro età i dubbi fossero ormai archiviati, perché la strada era stata percorsa e non c’era bisogno di lambiccarsi su cosa fare da lì a dieci minuti. Forse senza volerlo avevo detto o fatto qualcosa che li aveva infastiditi: in fin dei conti appartenevamo a due culture e a due generazioni diverse, era normale che nascessero dei malintesi. Ricordavo ancora lo sguardo del tutto incomprensibile che si erano lanciati mentre parlavo. O forse, più semplicemente, a Karin era venuto un altro attacco di artrosi. Mi importava davvero così tanto che fosse in preda ai dolori? In parte sì, e in parte avevo già innaffiato le piante, steso, ritirato e piegato un sacco di panni e sapevo quasi tutto di Ira. Avevo bisogno di rivedere persone conosciute che mi accogliessero e mi dessero un po’ di calore umano. E non dovevo cercarle, le avevo a portata di mano, bastava che montassi sulla Vespa e la mettessi in moto.

Fu così che verso sera mi apprestai a salire a Tosalet infilando qualche vestito in uno zaino nel caso fossi rimasta lì a dormire. A dire il vero mi azzardai a uscire a quell’ora con la segreta speranza di non dover ridiscendere di notte. E anche se sarebbe stato bello andare in motorino fra le stelle, gli alberi e le colline al chiaro di luna, questo non faceva che aumentare la percezione di rischio e di pericolo, la sensazione di essere indifesa. Avevo paura di tutto e di niente, e quella paura mi era entrata in corpo, si era impossessata di me. Un timore insensato, o magari solo cautela. Le macchine che mi stavano alle calcagna si disperavano perché in quella strada piena di curve non era facile sorpassare, ma il precipizio che si apriva alla mia destra mi faceva più paura di loro. Maledicevo gli automobilisti fra i denti. Come se non bastasse, a metà strada iniziò a piovigginare e poi le gocce diventarono sempre più grandi. Fu un tormento, perché non potevo fermarmi e non vedevo quasi nulla. Per cui tirai un sospiro di sollievo quando arrivai nella zona residenziale dove vivevano i norvegesi.

 

Proseguii fino a Villa Sol. Adesso le gocce erano diventate veri e propri aghi argentati: sembrava che brillassero di luce propria illuminando l’oscurità. Stava facendo buio. Che cosa ci facevo lì? Né i miei genitori né Santi avrebbero potuto immaginare che in quel momento stavo cercando la casa di due pensionati stranieri in un posto sconosciuto e nel bel mezzo di un acquazzone. Non avevo idea del motivo per cui agivo così. Facevo cose senza senso perché non avevo né un lavoro né regole. Avere un lavoro però voleva dire dare un significato superficiale alla vita, una falsa sicurezza. Non ero convinta neppure che avere degli orari e uno stipendio fisso fosse la panacea di tutti i mali. E se il destino mi avesse fatto incontrare Fred e Karin perché mi liberassi di una vita così mediocre? Villa Sol, la proprietà sul fiordo, il fuoristrada verde e la Mercedes nera che avevo visto parcheggiata in garage sarebbero pur dovuti andare a qualcuno dopo la loro morte. E loro sarebbero potuti morire da un momento all’altro. Non ero spinta dall’interesse. Ero arrivata fin lì mettendo a repentaglio la mia vita perché in quel momento stavo meglio con loro che senza, ma questo non mi impediva di considerare l’ipotesi che potessero condizionare positivamente il mio futuro. Mi vedevo già crescere mio figlio in quella casa e portarlo a scuola in fuoristrada. Avrei venduto la Mercedes e affittato il piano di sopra per poter vivere senza preoccupazioni economiche. In veranda avrei installato un piccolo laboratorio di ceramica e mi sarei dedicata al lavoro artigianale. Magari avrei potuto anche vendere qualche pezzo al mercatino del giovedì. E tutto questo lo avrei ottenuto perché Fred e Karin mi volevano bene come a una nipote, anzi più che a una nipote, perché il nostro rapporto era spontaneo, lo avevamo scelto e non ci era stato imposto dai vincoli di sangue. Su questo poi ci sarebbe stato molto da discutere: in fondo che cos’era quella storia del sangue?

Parcheggiai nella strada deserta e suonai il campanello. Non venne ad aprire nessuno e mi depressi un po’. Suonai di nuovo e... niente. Che delusione! Non avevo considerato quella possibilità e non mi azzardavo a tornare a casa sotto la pioggia: non era il momento di fare la temeraria, senza contare che ero tutta bagnata, a parte la testa coperta dal casco. Fu allora che mi venne in mente di andare verso casa di Alice, dove mi ero riparata dalla pioggia la prima volta che ero stata a Tosalet. Forse erano andati a trovarla: non mi sembrava possibile che con un tempo del genere si fossero spinti più lontano. E avevo ragione. A pochi metri da casa di Alice non vidi parcheggiato il fuoristrada, ma la Mercedes nera. Magari Fred aveva pensato che fosse una buona occasione per metterla in moto. Altre auto di lusso erano parcheggiate lungo il marciapiedi. Alice doveva aver dato una festa. Dalla casa proveniva una melodia, un suono lontano che la pioggia portava a raffiche. Appoggiai la Vespa al muro e salii in piedi sul sellino. Attraverso le porte a vetri che davano sul giardino vidi delle persone che ballavano e mi sembrò di scorgere Karin che fluttuava in un abito da sera bianco: forse l’eterna giovinezza di Alice l’aveva contagiata. Non ebbi il tempo di guardare più a lungo, perché in quel momento avvertii una presenza alle mie spalle.

«Se cadi ti farai male.»

Era l’Anguilla. Mi sembrava che il suo vero nome fosse Alberto: lo avevo già visto a casa di Karin. Aveva un ombrello e un’espressione piuttosto ostile. Mi vergognai. Ero stata scoperta a curiosare e la cosa sarebbe giunta all’orecchio dei Christensen, e anche di Alice. Vedevo l’eredità allontanarsi sempre di più.

Gli tesi la mano perché mi aiutasse a scendere.

«Volevo sapere se Fred e Karin erano qui. Sono passata da loro... mi sto inzuppando... non voglio tornare a casa con questa pioggia.»

Quando posai i piedi per terra mi misi sotto l’ombrello e mi tolsi il casco.

«Ti conosco», fece lui.

«E io conosco te», risposi, come se stessimo parlando in codice.

«Perché non hai suonato?»

«L’ho fatto», mentii, «ma evidentemente non hanno sentito. »

«E dov’è il campanello, a destra o a sinistra?»

«Non me lo ricordo.»

«Bugiarda.»

L’ombrello ci obbligava a stare troppo vicini, a soffiarci in faccia le parole. Non gli piacevo. Era strano, sebbene le gambe mi tremassero per la solita vaga paura di tutto e niente c’era qualche ragione per cui quel tizio non mi spaventava. Non era come il nulla pieno di stelle. Non era come la strada di notte. Non era niente di tutto ciò, era un essere umano come me e non mi faceva davvero paura.

«Se puoi, digli che li ho cercati. Me ne vado», tagliai corto rimettendomi il casco.

«Non così in fretta», fece lui.

«Non così in fretta? E chi sei, un poliziotto? Dai, non rompere. »

«Non ti azzardare a muoverti», disse tirando fuori un cellulare e lasciandomi sotto la pioggia.

Si allontanò un po’ per parlare senza perdermi di vista. Dovette aspettare qualche minuto prima che gli rispondessero e si spazientì. Mi immaginai Fred e Karin ancora storditi dal ballo e costretti ad assimilare la notizia che li stavo spiando da dietro il muretto. Anch’io aspettavo con le braccia incrociate e il casco in mano. Quel tizio si comportava come un buttafuori, una guardia del corpo o un addetto alla sicurezza. Quel giorno indossava un completo e una cravatta e portava i capelli lisciati all’indietro. Alla fine mise via il telefono.

«Ti porterò a Villa Sol e aspetteremo che arrivino.»

Il ragazzo robusto, Martín, uscì dalla casa e gli diede un mazzo di chiavi. Non avevo la forza di mettermi a discutere, volevo solo asciugarmi, vedere un po’ di televisione e andarmene a dormire.

Mi portò per modo di dire. Il motorino lo guidavo io, mentre lui stava seduto dietro con l’ombrello aperto. Quando arrivammo estrasse le chiavi dalla tasca e aprì il cancello e la porta di ingresso. Io mi tolsi lo zaino dalle spalle e lo lasciai cadere a terra.

«Che non ti venga in mente di sederti sul divano tutta bagnata», disse lui indovinando le mie intenzioni.

Continuavo a non avere voglia di discutere. Raccolsi lo zaino e salii in quella che consideravo la mia stanza, quella con i fiori azzurri. Sotto la trapunta c’era ancora la camicia da notte di seta che avevo lasciato lì. Anche i vestiti che avevo portato nello zaino erano umidi: si salvava solo una maglietta, così mi infilai la camicia da notte. Sapevo a cosa poteva alludere, ma non me ne importava un bel niente. Ormai non avevo niente da perdere.

«Non so cosa ti sia messa in testa, ma a me non la fai. E finiranno per smascherarti anche loro, non pensare che siano degli stupidi.»

Fu la sua reazione davanti allo spettacolo che offrii scendendo le scale. Se ne stava appoggiato alla parete a guardarmi con i piedi incrociati. Dovevo riconoscere che con l’abito scuro e i capelli bagnati tirati all’indietro non era affatto male. E improvvisamente quella sensazione mi sconcertò. La camicia da notte mi calzava a pennello, mi aderiva alla pancia e scivolava un po’ più morbida sul seno, con le spalline che cadevano. Era il tipo di abbigliamento che usano le donne che non vogliono andare tanto per le lunghe.

Per tutta risposta girai su me stessa facendo ondeggiare la gonna.

«Pensa quello che vuoi ma non che ho intenzione di sedurti, perché ti sbaglieresti di grosso.»

Mi guardò con infinito disprezzo, ma io sapevo, perché me lo diceva l’istinto, che gli piacevo più di quanto volesse ammettere. Non riusciva a smettere di guardarmi i tatuaggi. Era il tipico feticista. Uno di quegli uomini dei quali cominci a scoprire ogni giorno una cosa nuova finché non li sopporti più. Decisi che non mi sarei fatta mettere in difficoltà e me ne andai in cucina, mentre i suoi passi, i passi di un paio di scarpe nuove, mi seguivano. Aprii il frigorifero e mi versai un bicchiere di latte, lo feci scaldare nel microonde e iniziai a berlo lentamente, seduta sul divano, mentre guardavo la televisione. Ora lo sentivo dietro di me. I suoi vestiti sapevano di bagnato.

«Chi ti ha dato il permesso di usare quella camicia da notte?»

«Non ne ho bisogno, è mia.»

«Ah sì, certo, hai delle cose nello zaino.»

Sentivo un po’ di freddo, ma resistetti finché lui non se ne fu andato nello studio-biblioteca, che aprì sempre con le chiavi, poi mi misi uno scialle di Karin. Sapeva di lei, del suo profumo, e provai una sensazione di leggero fastidio. Non era come quando mi infilavo un pullover di mia madre. Anche se non ci capivamo, il suo odore mi era familiare come il cenone della vigilia di Natale, mentre l’odore di Karin addosso in fondo mi repelleva.

Quando ebbi abbastanza sonno mi tolsi lo scialle e senza dire niente salii in camera e mi coricai. All’inizio rimasi all’erta perché la stanza non si poteva chiudere a chiave, ma poi mi rilassai. Alberto poteva anche essere un’anguilla, ma niente più di questo.

Mi addormentai come un sasso pensando che sicuramente anche Alberto voleva essere il nipote preferito dei norvegesi. Poi il rumore del cancello che si apriva e si chiudeva mi svegliò. Ci fu un rapido scambio di battute a voce bassa e qualche sbadiglio. Mi chiesi se era il caso di uscire: sarebbe stato peggio per tutti, perché avremmo dovuto parlare e passare la notte in bianco. La verità era che non sapevo cosa fare. Andai a piedi nudi fino alla tromba delle scale e vidi quello stupido di Alberto che se ne andava. Poi vidi Karin nel meraviglioso abito bianco con le piume leggere che le incorniciavano la scollatura. Era così innaturale addosso a lei da sembrare un travestimento. E soprattutto notai Fred: indossava un’uniforme che avevo visto migliaia di volte nei film sui nazisti, con tanto di berretto e tutto il resto, che lo faceva sembrare ancora più alto e accentuava ulteriormente i suoi tratti già severi. Stava meglio di sua moglie. Era proprio da Alice organizzare feste in maschera come si usava un tempo, quando erano tutti eleganti e le donne indossavano l’abito lungo tutte le sere.

Tornai a letto e spensi la luce cercando di riaddormentarmi. Dopo un po’ li sentii salire faticosamente le scale. Sarebbe arrivato un momento, pensai, in cui non avrebbero più potuto farlo e avrebbero dovuto trasformare lo studio-biblioteca in camera da letto e vivere al piano di sotto. “Sarebbe molto più comodo”, pensai mentre mi si chiudevano gli occhi. Ma prima di abbandonarmi completamente al sonno, sentii la porta della mia stanza aprirsi, dei piedi scalzi avvicinarsi al letto e due occhi restare lì a guardarmi per un po’, prima di andarsene richiudendo la porta. O stavo già sognando?

 

La mattina dopo mi stavano aspettando in cucina, Karin ancora in camicia da notte e Fred vestito di tutto punto, come se avesse un appuntamento, con un paio di pantaloni grigio chiaro, una giacca azzurra, scarpe perfettamente lucidate e zigomi e orecchie più brillanti che mai. Era ancora in piedi e stava bevendo l’ultimo sorso di tè.

«Pensavamo che questa casa non ti piacesse, e neppure noi, visto il modo in cui te ne sei andata l’altro giorno. Alla francese, dite voi, non è vero?» disse Karin in un modo che mi fece vergognare.

Suo marito però cambiò discorso e non ebbi il tempo di dare spiegazioni.

«Sono felice che tu sia qui, così potrai fare compagnia a Karin.»

La mia espressione disorientata li sconcertò e rimanemmo per un attimo a fissarci. La mia domanda era: compagnia? E per quanto tempo?

«Devo partire e non voglio lasciarla sola. Starò via uno o due giorni», disse assumendo un’espressione pensosa. «Naturalmente ti darò un compenso adeguato. Ti faranno comodo un po’ di soldi, con l’arrivo del piccolo.»

«Ma soprattutto», intervenne Karin, «farai un grande piacere a me. Starai bene qui, non ti mancherà niente.»

Guadagnare un po’ di soldi mi sembrava una buona idea, tanto per cambiare. Meglio che continuare a sognare un’improbabile eredità.

«Ogni giorno viene una domestica a fare le pulizie. Tu dovrai fare solo un po’ di spesa e stare con me. Sai guidare il fuoristrada?»

«Senza problemi», risposi.

La presenza di Fred non mi infastidiva. Era silenzioso e gentile, eppure mi sembrava che l’atmosfera in casa si sarebbe alleggerita senza di lui. D’altra parte, non mi piaceva assumermi la completa responsabilità di Karin. Se si fosse ammalata? Forse era il momento giusto per chiedere perché non si fossero fatti vivi per tanti giorni, ma pensavo di conoscere già la risposta: volevano che fossi io ad andare da loro, altrimenti significava che non mi interessavano abbastanza. Avrebbero dubitato del mio reale desiderio di passare del tempo con una coppia di ultraottantenni.

Mentre mi davo da fare con la lana e i ferri e cercavo di raggiungere la perfezione di Karin, lei portò dallo studio-biblioteca dei fogli e delle buste e si mise a scrivere. Di lì a qualche giorno sarebbe stato il suo compleanno e voleva festeggiarlo. Dietro gli occhiali da presbite, con una calligrafia molto elegante, vergò delle parole che mi sembravano tedesche, anche se a dire il vero non avevo proprio idea di come fosse il norvegese.

«Sa il tedesco?» le chiesi contando i punti.

Karin si tolse gli occhiali per guardarmi meglio.

«Un po’. Un po’ di tedesco, un po’ di francese, un po’ di inglese. Sono molto vecchia, qualcosa l’ho imparato.»

«Ieri stava benissimo con quell’abito bianco. L’ho vista, sa, alla festa di Alice», dissi perché la mia attività di spionaggio smettesse di essere un argomento tabù.

«Sì, lo so che eri lì a guardare. Avrei sbirciato anch’io se fossi riuscita a salire in piedi sulla sella di un motorino», ammise ridendo.

Mi limitai a sorridere, perché mi sembrava che si stesse dando un’importanza sempre più esagerata a quell’azione del tutto innocente. E adesso, con un po’ di distanza e con la luce del sole, ne ero ancora più convinta.

«Quello che non capisco è perché non hai suonato. Alice la conoscevi.»

«Non lo capisco neanch’io, è stato stupido. Non volevo sembrare un’intrusa, piombare a una festa a cui non ero stata invitata.»

Dal gesto di Karin capii che la spiegazione l’aveva soddisfatta completamente. Aveva soddisfatto anche me.

Approfittai di quel momento per dirle che mi ero dimenticata di sotto le pillole per la nausea (avevamo iniziato a dire «di sotto» per indicare la casa di mia sorella) e avevo paura di sentirmi male. In realtà mi era venuto un forte desiderio di stare un po’ da sola. Volevo ascoltare solo i miei pensieri o niente. Essere così volubile mi uccideva: prima volevo stare con loro, poi no. Visto che stava per fare buio, Karin mi disse di prendere il fuoristrada. Probabilmente pensava che il motorino non ce la facesse e voleva essere sicura che sarei tornata. La capivo: è facile essere coraggiosi quando niente te lo impedisce.

Il fuoristrada era tanto grande che parcheggiai su una salita sterrata prima di arrivare nella mia stradina. Quando chiusi la portiera provai una sensazione di libertà davvero stupida, visto che nessuno mi tratteneva o mi obbligava a fare niente, eppure inspirai profondamente l’odore della strada. Le luci fioche della veranda lasciavano intravedere un uomo di fronte alla staccionata. Un anziano. Lo guardai meglio. Lo conoscevo. Era Julián, quello a cui avevo mostrato la casa. Non si accorse che mi stavo avvicinando, e quando gli parlai alle spalle e gli toccai il braccio ebbi paura che potesse spaventarsi. Era come toccare la stessa bolla di debolezza in cui erano intrappolati Fred e Karin. Ma mi sbagliavo: lui si voltò con calma e sorrise.

«Sono contento che tu stia bene», disse mentre lo facevo entrare. Era venuto per la storia dell’affitto. Aggiunse che era la seconda volta che mi cercava senza trovarmi. Mi chiese scusa per l’ora. Io gli dissi che mi aveva trovato per puro caso. Parlammo un bel po’, o meglio, parlava solo lui, e ogni volta che poteva menzionava sua moglie; gli interessavano anche i miei amici norvegesi, forse perché lo colpiva il fatto che avessi amici della sua età. E ascoltava con molta attenzione qualunque cosa gli dicessi. Avevo sempre sentito dire che agli anziani piace raccontare le loro imprese, ma evidentemente quelli che incontravo io facevano eccezione, perché né la coppia di norvegesi né tantomeno quell’uomo sembravano avere imprese da raccontare.

Quando se ne andò, approfittai per innaffiare le piante e ritirare gli asciugamani dallo stendino. Li piegai e li lasciai sopra il tavolo. Presi le pillole, le chiavi e spensi la luce. Ormai ero più legata a Villa Sol che a quella casa.

Il Profumo delle Foglie di Limone
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